26/12/2025 strategic-culture.su  12min 🇮🇹 #300054

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Alcune riflessioni sulla Dottrina Monroe e il principio di non-intervento

Lorenzo Maria Pacini

L'attualità del principio di non intervento appare caratterizzata da una profonda ambivalenza.

L'origine concettuale

Per quanto riguarda l'origine concettuale della regola di non-intervento nel diritto internazionale, la dottrina individua spesso il suo fondamento nell'opera del filosofo svizzero del XVIII secolo Emer de Vattel. Nel Diritto delle genti, Vattel affermava che qualora una nazione si intromettesse negli affari interni di un'altra, essa arrecherebbe un torto. L'idea di non-intervento acquisì maggiore rilevanza nel corso del XIX secolo, in risposta alle aspirazioni egemoniche delle grandi potenze europee dell'epoca, quali Austria, Prussia e Russia, riunite nella Santa Alleanza. In questo contesto, la Dottrina Monroe - proclamata nel 1823 dal presidente statunitense James Monroe e secondo cui qualsiasi interferenza europea nell'emisfero occidentale sarebbe stata considerata un atto ostile nei confronti degli Stati Uniti - viene spesso richiamata come una delle prime manifestazioni di prassi statale relative al principio di non-intervento.

Tuttavia, fu soltanto nel XX secolo che tale principio iniziò a essere formalizzato in strumenti giuridici internazionali. Esso venne esplicitamente sancito in alcuni trattati conclusi tra Stati del continente americano. In particolare, l'articolo 8 della Convenzione di Montevideo sui diritti e i doveri degli Stati stabilisce che nessuno Stato ha il diritto di intervenire negli affari interni o esterni di un altro. Tale affermazione fu ribadita dall'articolo 1 del Protocollo aggiuntivo del 1936 alla Convenzione di Montevideo relativo al non-intervento, nel quale le Parti contraenti dichiarano inammissibile qualsiasi forma di intervento, diretto o indiretto, qualunque ne sia la motivazione, negli affari interni o esterni di un altro Stato parte.

La Dottrina Monroe rappresenta uno dei riferimenti più significativi nella storia delle relazioni internazionali per comprendere l'evoluzione del principio di non intervento, pur nella sua intrinseca ambiguità. Proclamata nel 1823 dal presidente degli Stati Uniti James Monroe, essa nasceva in un contesto storico segnato dal declino degli imperi coloniali europei nel continente americano e dal timore che le potenze della Santa Alleanza potessero intervenire per restaurare il dominio monarchico nei nuovi Stati indipendenti dell'America Latina. In questo senso, la Dottrina Monroe si presentava come un'affermazione di difesa dell'autonomia politica del continente americano rispetto alle interferenze esterne, richiamando implicitamente il principio di non intervento.

Nella sua formulazione originaria, la Dottrina Monroe affermava che qualsiasi intervento europeo negli affari dell'emisfero occidentale sarebbe stato considerato dagli Stati Uniti come un atto ostile. Tale impostazione sembrava dunque rafforzare l'idea che ogni Stato dovesse essere libero di determinare autonomamente il proprio assetto politico e istituzionale senza ingerenze esterne, un concetto che si avvicina alla nozione moderna di sovranità e al divieto di intervento negli affari interni altrui. Tuttavia, questa apparente adesione al principio di non intervento era accompagnata da una logica asimmetrica: mentre si vietava l'ingerenza europea nelle Americhe, non si escludeva la possibilità di un ruolo attivo degli Stati Uniti nel continente.

Proprio questa asimmetria costituisce il principale elemento di tensione tra la Dottrina Monroe e il principio di non intervento così come elaborato nel diritto internazionale contemporaneo. Nel corso del XIX e del XX secolo, la dottrina fu progressivamente reinterpretata e ampliata, in particolare attraverso il cosiddetto Corollario Roosevelt del 1904, che attribuiva agli Stati Uniti il diritto di intervenire negli affari interni degli Stati latinoamericani per prevenire l'ingerenza di potenze extra-emisferiche. In questa fase, la Dottrina Monroe cessò di essere uno strumento di difesa della non ingerenza per trasformarsi in una giustificazione ideologica dell'interventismo statunitense.

Dal punto di vista del diritto internazionale, la Dottrina Monroe non può essere considerata una norma giuridica vincolante, ma piuttosto un atto unilaterale di politica estera. Essa, tuttavia, ha avuto un'influenza rilevante sulla prassi statale e sul dibattito dottrinale relativo al non intervento, soprattutto in ambito regionale. In America Latina, le ripetute interferenze statunitensi hanno contribuito a rafforzare, in senso reattivo, l'elaborazione di strumenti giuridici che affermano in modo esplicito il divieto di intervento, come la Convenzione di Montevideo e la Carta dell'Organizzazione degli Stati Americani.

La Carta delle Nazioni Unite non contiene una disposizione che disciplini espressamente il principio di non-intervento nei rapporti tra singoli Stati. Tuttavia, l'articolo 2, paragrafo 7, afferma che nulla nella Carta autorizza le Nazioni Unite a intervenire in questioni che rientrano essenzialmente nella competenza interna di uno Stato. Una previsione analoga era già presente nel Patto della Società delle Nazioni, il cui articolo 15, paragrafo 8, escludeva la possibilità che la Società formulasse raccomandazioni in merito a controversie che, secondo il diritto internazionale, rientravano esclusivamente nella giurisdizione domestica degli Stati. Secondo alcuni autori, la sostituzione del riferimento al "diritto internazionale" con il termine "essenzialmente" nella Carta dell'ONU mirava ad ampliare e rafforzare la portata della clausola di giurisdizione interna rispetto a quella del Patto della Società delle Nazioni.

Sebbene l'articolo 2(7) riguardi l'azione dell'Organizzazione delle Nazioni Unite e non direttamente la condotta dei singoli Stati, esso può comunque offrire indicazioni utili sul funzionamento del principio di non-intervento, poiché le preoccupazioni che ne hanno motivato l'adozione sono analoghe a quelle sottese a tale principio. Ulteriori disposizioni della Carta rafforzano indirettamente il divieto di intervento, come il principio di "uguaglianza sovrana" degli Stati membri sancito dall'articolo 2(1).

Dopo l'adozione della Carta ONU, numerosi strumenti regionali hanno incorporato espliciti divieti di intervento tra Stati. La Carta dell'Organizzazione degli Stati Americani del 1948, agli articoli 15 e 16, fornisce una definizione dettagliata delle condotte vietate, proibendo non solo l'uso della forza armata, ma anche qualsiasi altra forma di ingerenza o coercizione di natura politica o economica. Analogamente, l'Atto costitutivo dell'Unione Africana del 2000 riafferma il principio della non-ingerenza negli affari interni degli Stati membri, mentre la Carta dell'ASEAN del 2007 impone ai suoi membri di conformarsi al principio di non-interferenza negli affari interni degli altri Stati dell'associazione.

Pertanto, sebbene il principio di non-intervento non sia enunciato in modo esplicito nella Carta delle Nazioni Unite né in altri trattati a vocazione universale, numerosi Stati si sono impegnati a rispettarlo attraverso accordi regionali. Il fatto che tali strumenti siano stati ratificati da Stati appartenenti a regioni geografiche diverse rafforza l'argomentazione secondo cui il divieto di intervento costituisce una norma di diritto internazionale consuetudinario.

Il diritto internazionale consuetudinario si fonda su due elementi: una prassi statale diffusa e coerente e la convinzione che tale prassi sia giuridicamente obbligatoria (opinio juris). Come chiarito dalla Commissione di diritto internazionale, occorre esaminare il comportamento effettivo degli Stati per determinare se essi riconoscano l'esistenza di un obbligo o di un diritto di agire in un determinato modo. Entrambi gli elementi sono necessari, e si riconosce generalmente che anche le dichiarazioni verbali, scritte o orali, possano costituire prassi rilevante. Inoltre, la consuetudine moderna viene spesso desunta da trattati multilaterali e da dichiarazioni adottate in sedi internazionali, come l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

Oltre ai trattati multilaterali già menzionati, numerose risoluzioni dell'Assemblea Generale dell'ONU forniscono ulteriori elementi a sostegno del carattere consuetudinario della regola di non-intervento. Tra queste, la Dichiarazione sulle relazioni amichevoli del 1970 riveste un ruolo centrale. Essa, adottata all'unanimità, afferma che i principi della Carta in essa incorporati costituiscono principi fondamentali del diritto internazionale. Tra tali principi figura quello relativo al dovere di non intervenire nelle questioni che rientrano nella giurisdizione interna degli Stati. La Dichiarazione definisce in modo dettagliato il divieto di intervento, includendo non solo l'intervento armato, ma anche ogni altra forma di coercizione o interferenza volta a compromettere l'autonomia politica, economica, sociale e culturale di uno Stato, nonché il sostegno ad attività sovversive o terroristiche dirette al rovesciamento violento di un altro governo.

Sebbene la Dichiarazione del 1970 rappresenti il documento più autorevole in materia, essa si inserisce in una serie di risoluzioni precedenti e successive. La Dichiarazione del 1965 sull'inammissibilità dell'intervento negli affari interni degli Stati, adottata quasi all'unanimità, utilizzava un linguaggio molto simile, pur essendo stata considerata da alcuni Stati, tra cui gli Stati Uniti, come una mera affermazione di intenti politici. La Dichiarazione del 1981 adottò un'impostazione più ampia e dettagliata, ma la significativa opposizione incontrata ne ha limitato il valore quale espressione di diritto consuetudinario.

Nella sua giurisprudenza più rilevante, la Corte internazionale di giustizia ha riconosciuto il ruolo centrale della Dichiarazione sulle relazioni amichevoli nel definire la portata consuetudinaria del principio di non-intervento. Nel caso Attività militari e paramilitari in e contro il Nicaragua, la Corte ha individuato nella coercizione esercitata sulle scelte sovrane di uno Stato l'elemento qualificante dell'intervento illecito, affermando che le manifestazioni di opinio juris a sostegno del principio sono numerose e facilmente riscontrabili. La Corte ha inoltre ribadito che il divieto di intervento costituisce un principio consuetudinario di applicazione universale, pur riconoscendo che esso è stato frequentemente violato nella prassi.

Si può anche notare che durante la Guerra fredda le grandi potenze hanno spesso interferito negli affari interni di Stati più deboli, evidenziando una significativa discrepanza tra il contenuto normativo del principio e il comportamento effettivo degli Stati. La Corte ha tuttavia chiarito che l'assenza di una conformità perfetta nella prassi non compromette l'esistenza della norma consuetudinaria, posizione ribadita anche nella sentenza relativa alle Attività armate sul territorio del Congo.

Infine, vi è un ampio consenso tra studiosi e Stati sul fatto che il principio di non-intervento si applichi anche alle operazioni cibernetiche, nonostante le frequenti violazioni riscontrabili nella prassi. Il Tallinn Manual 2.0 - un documento che ha tracciato una linea di demarcazione nell'interpretazione dei concetti di neutralità e non intervento -, pur non riflettendo ufficialmente le posizioni statali, sostiene che la reiterata violazione del divieto non ne intacca la validità giuridica. Dichiarazioni ufficiali di numerosi Stati e il rapporto finale del Gruppo di esperti governativi delle Nazioni Unite del 2015 confermano che gli Stati considerano il principio di non-intervento applicabile anche all'uso delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione, pur permanendo significative incertezze circa i suoi elementi costitutivi e la sua esatta delimitazione.

Una delicata vulnerabilità

La lettura congiunta dell'evoluzione storica del principio di non-intervento e della Dottrina Monroe mette in luce con particolare evidenza una contraddizione strutturale che continua a caratterizzare l'ordine internazionale: quella tra l'universalità formale delle norme giuridiche e il loro utilizzo selettivo da parte delle grandi potenze. Il principio di non-intervento, emerso progressivamente dal pensiero giusnaturalista fino alla sua consacrazione nel diritto internazionale consuetudinario e nella giurisprudenza della Corte internazionale di giustizia, si fonda sull'idea dell'eguaglianza sovrana degli Stati e sul diritto di ciascuno di essi di determinare liberamente il proprio assetto politico, economico e sociale. Esso costituisce, almeno sul piano normativo, una delle colonne portanti dell'ordine internazionale contemporaneo.

La Dottrina Monroe, proclamata nel 1823, viene spesso presentata come una precoce affermazione di questo principio, nella misura in cui respingeva l'ingerenza delle potenze europee negli affari dell'emisfero occidentale. Tuttavia, una lettura storica più attenta mostra come tale dottrina sia stata rapidamente trasformata dagli Stati Uniti in uno strumento di dominio regionale. Lungi dal configurarsi come una difesa imparziale del non-intervento, essa ha finito per legittimare una forma specifica di colonialismo politico ed economico nel Sud America, esercitato non attraverso l'annessione territoriale diretta, ma mediante meccanismi di controllo indiretto, pressione diplomatica, interventi militari selettivi e influenza economica e culturale.

In questo senso, la Dottrina Monroe ha operato come una cornice ideologica del soft power statunitense nel continente latinoamericano. Attraverso il richiamo alla stabilità, all'ordine e alla sicurezza regionale, gli Stati Uniti hanno giustificato interferenze sistematiche nei processi politici interni di numerosi Stati sudamericani, sostenendo governi favorevoli ai propri interessi, condizionando le economie locali e intervenendo, direttamente o indirettamente, contro regimi percepiti come ostili. Il Corollario Roosevelt rappresenta il punto di massima esplicitazione di questa logica, attribuendo agli Stati Uniti un vero e proprio "diritto di intervento" correttivo, in palese contraddizione con il principio di non-intervento.

Alla luce di questa esperienza storica, l'attualità del principio di non-intervento appare segnata da una profonda ambivalenza. Da un lato, esso è oggi ampiamente riconosciuto come norma consuetudinaria di portata universale, ribadita in strumenti giuridici regionali e globali e adattata anche a nuovi ambiti come il cyberspazio. Dall'altro, la prassi statunitense legata alla Dottrina Monroe dimostra come il non-intervento possa essere svuotato di contenuto attraverso il suo uso strumentale da parte di potenze egemoni, che lo invocano per escludere rivali esterni mentre lo violano nei confronti di Stati più deboli.

La Dottrina Monroe, pertanto, non solo rappresenta un precedente storico, ma continua a fungere da paradigma critico per comprendere i limiti reali del principio di non-intervento. Essa mostra come il diritto internazionale, pur formalmente neutro e universalistico, possa essere piegato a logiche di egemonia e di colonialismo informale, rendendo il non-intervento un principio centrale ma costantemente vulnerabile nell'attuale sistema internazionale.

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