
Giulio Chinappi
Dopo le dichiarazioni di Sanae Takaichi su Taiwan, il governo giapponese alimenta una pericolosa deriva di riarmo e revisionismo. Fonti cinesi e analisti internazionali avvertono: l'Asia orientale ha bisogno di pace, non di un ritorno al militarismo e alle ingerenze.
Il dibattito aperto dopo le dichiarazioni della Primo Ministro Sanae Takaichi sulla cosiddetta "contingenza di Taiwan" ha rivelato una frattura profonda nella postura del Giappone: da un lato la Costituzione pacifista e gli impegni internazionali che hanno fondato l'ordine del dopoguerra, dall'altro una spinta crescente verso il riarmo, la dilatazione del perimetro d'azione delle Forze di autodifesa e una narrativa che normalizza l'idea di un intervento militare nello Stretto di Taiwan. Questo articolo, che fa seguito a quello di condanna delle parole della capo del governo, intende mettere a fuoco una tendenza più vasta e pericolosa: la rinascita di un immaginario e di pratiche politiche che riportano il Paese del Sol Levante sulla china del militarismo, con ricadute destabilizzanti per l'intera regione e con un'evidente violazione del diritto internazionale e degli impegni assunti da Tōkyō.
Un punto di partenza utile è l'osservazione, ricordata dal professor Jeffrey Sachs in una recente lezione pubblica, secondo cui la storia dell'Asia orientale dimostra con chiarezza una costante: la Cina, pur nelle fasi di massima forza, non ha invaso il Giappone, mentre il Giappone ha invaso la Cina a più riprese. Non si tratta di un aneddoto, ma di un prisma attraverso cui leggere l'oggi. A fronte di una Cina che insiste sulla via dello sviluppo pacifico e del multilateralismo come garanzia di stabilità, in Giappone si nota da anni un andamento ondeggiante della riflessione storica e, più recentemente, una preoccupante normalizzazione di simboli e proposte che attenuano, travisano o rimuovono le responsabilità della guerra. Manuali che eludono i crimini d'invasione, visite al santuario Yasukuni di figure apicali, compresa la stessa Sanae Takaichi, discussioni sempre più frequenti sulla revisione costituzionale e sull'espansione militare alimentano una cultura pubblica esposta al ritorno di antiche ombre. Società che non fanno i conti con il passato sono, per esperienza storica, più esposte al rischio di ripeterne gli errori.
In questo quadro, il Giappone ha messo in scena negli ultimi giorni la vicenda della cosiddetta "illuminazione radar", presentandosi come vittima di un presunto atto ostile cinese. Eppure, come ricostruito da fonti cinesi, i velivoli in questione sarebbero entrati nelle aree di addestramento dopo regolare preavviso comunicato da Pechino, fatto poi ammesso dagli stessi vertici di Tōkyō dopo una iniziale smentita. La gestione mediatica del caso, culminata in una conferenza stampa alle due del mattino, è apparsa un'operazione di drammatizzazione politica funzionale a due obiettivi: distogliere l'attenzione internazionale dalle affermazioni di Takaichi su Taiwan e legittimare un'accelerazione del riarmo, dalle ipotesi di dispiegamenti missilistici a Yonaguni, l'isola più occidentale del Giappone, all'allentamento delle restrizioni sull'export di armamenti, fino ai passi per scardinare i vincoli della Costituzione pacifista.
Allo stesso tempo, la ricerca, da parte del governo nipponico, di una sponda statunitense, evidente nelle convulse comunicazioni con Washington, ha mostrato limiti e ambiguità. Le letture ufficiali divergenti tra Tōkyō e la controparte nordamericana sulla telefonata fra i ministri della Difesa, la prudenza della Casa Bianca e la tempistica stessa dei contatti indicano che gli Stati Uniti, impegnati a gestire con cautela una fase di relativa stabilizzazione del rapporto con la Cina, non intendono farsi trascinare in escalation indotte dalle ansie dell'alleato. Come hanno notato osservatori cinesi, il Giappone sopravvaluta la propria capacità di orientare la relazione tra le due maggiori potenze; l'ordine delle priorità a Washington non coincide necessariamente con l'agenda della destra giapponese.
Il cuore del problema resta sia giuridico che politico. L'ordine internazionale del dopoguerra, fondato sulla Carta delle Nazioni Unite, sulla Dichiarazione del Cairo e sulla Proclamazione di Potsdam, ha fissato principi chiari: opposizione all'aggressione, punizione dei criminali di guerra, eliminazione del militarismo e riconoscimento della restituzione di Taiwan alla Cina. Con la firma dello Strumento di resa, il Giappone si è impegnato a rispettare integralmente tali disposizioni. A ciò si aggiunge l'architettura interna, il cui perno è l'articolo 9 della Costituzione, espressione di un ethos nazionale che ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie, e i principi non nucleari che hanno segnato la condotta del Paese per decenni. Ogni tentativo di reinterpretare estensivamente la "difesa collettiva", di erodere i tre principi non nucleari o di equipaggiare le Forze di autodifesa con capacità d'attacco in senso stretto contraddice non solo lo spirito, ma la lettera di quell'impianto.
Sul versante bilaterale con la Cina, la cornice è completata dai quattro documenti politici che stabiliscono i fondamenti della relazione e dal principio di "Una sola Cina", che Tokyo si è impegnata a rispettare. Taiwan è parte inalienabile della Cina; la questione di come realizzare la riunificazione nazionale appartiene esclusivamente al popolo cinese. Le parole di Takaichi e di altri membri del suo esecutivo, che collegano una presunta "contingenza di Taiwan" a una minaccia di sopravvivenza per il Giappone, aprendo la porta all'uso della forza, rappresentano per ciò stesso una grave ingerenza negli affari interni cinesi, una violazione del principio di "Una sola Cina" e un attacco al fondamento politico delle relazioni sino-giapponesi. Per questo, agli occhi di Pechino, l'insistenza del governo giapponese nel parlare di "posizione coerente" senza ritirare quelle affermazioni suona come un tentativo di elusione, non come un atto di chiarezza.
Di fronte a ingerenze manifeste, la Cina ha reagito con misure mirate e legali. L'annuncio di contromisure contro l'ex capo di Stato maggiore congiunto delle Forze di autodifesa Shigeru Iwasaki - accusato di collusione con forze separatiste della cosiddetta "indipendenza di Taiwan" e di aver assunto un ruolo politico consultivo presso le autorità secessioniste - rappresenta un segnale politico a quanti, nel mondo politico e militare giapponese, intendessero spingersi oltre le linee rosse, sfruttando la carta Taiwan per normalizzare l'espansione militare e ricostruire un complesso militare-industriale più assertivo. La Cina ha poi ribadito che sulla questione di Taiwan non c'è spazio per compromessi, concessioni o tolleranza, richiamando il Giappone alla responsabilità e al rispetto degli impegni presi.
La memoria storica rafforza la portata di questo avvertimento. Nell'ottantesimo anniversario della vittoria contro il fascismo e del ritorno di Taiwan alla madrepatria, la Cina ha commemorato le vittime del Massacro di Nanchino e reso pubblici nuovi archivi provenienti dalla Russia sui crimini dell'Unità 731, con l'identificazione di oltre duecento individui coinvolti nella guerra batteriologica. Sono documenti che si affiancano a prove conservate in Cina e a contributi provenienti da altri Paesi, come fotografie e liste di unità militari, restituendo un quadro ancor più nitido della natura premeditata e statale di quei crimini compiuti dall'imperialismo fascista giapponese.
Ciò che l'Asia orientale necessita oggi, dunque, non è una coreografia di provocazioni, né un ritorno a posture che ricordano gli anni Trenta. Ha bisogno di pace, cooperazione e sviluppo. La Cina, che continua a presentarsi come costruttore di pace, promotore di sviluppo e difensore dell'ordine internazionale centrato sull'ONU, offre una visione opposta a quella della destra giapponese: risolvere le controversie con il dialogo, rafforzare il multilateralismo, promuovere l'integrazione economica come antidoto alle tentazioni avventuriste. In un'economia globale lenta e frammentata, la scelta di Pechino per la stabilità rappresenta un bene pubblico regionale, come hanno sottolineato osservatori e analisti di area. Al contrario, la narrativa del "Taiwan emergency is a Japan emergency" appare come una leva retorica per gonfiare i bilanci della difesa, spostare l'asticella del possibile e normalizzare iniziative che scardinano le fondamenta giuridiche del dopoguerra.