
Lorenzo Maria Pacini
L'esperienza della Guerra Fredda suggerisce che è possibile stabilizzare anche un'intensa rivalità se entrambe le parti percepiscono tale processo come importante o vitale per interessi più ampi.
Rivalità
Il nemico numero uno degli Stati Uniti d'America sotto la presidenza repubblicana di Donald Trump è senza dubbio la Cina.
La rivalità geopolitica tra gli Stati Uniti e la Repubblica Popolare Cinese si articola su piani economici, tecnologici, militari, politici e ideologici, ed è divenuta la principale preoccupazione di sicurezza nazionale per entrambe le potenze e sta emergendo come il fulcro della politica mondiale che caratterizzerà i prossimi decenni del XXI secolo. È, in un certo senso, la dinamica centrale attorno alla quale ruotano gli altri eventi internazionali e le scelte dei singoli Stati. Tale competizione racchiude numerosi rischi, non solo per i due protagonisti, ma per l'intera comunità globale: pericoli di conflitto militare diretto, guerra economica, sovversione politica e la possibilità che le tensioni tra le due principali potenze mondiali compromettano qualsiasi consenso internazionale su questioni cruciali come il cambiamento climatico o l'intelligenza artificiale. Cercheremo quindi di comprendere come gli USA vedono la Cina e quale è la strategia dichiarata di conflitto.
Per fare ciò, dobbiamo assumere alcune posture. Negli Stati Uniti, l'orientamento politico volto a cercare forme di cooperazione e coesistenza all'interno di un quadro internazionale condiviso - caratteristico degli ultimi trent'anni - è sostanzialmente terminato e la politica americana, oggi, si concentra piuttosto sul punire il comportamento di Pechino. Parallelamente, Il governo di Pechino accumula scorte alimentari ed energetiche, produce armi e compie mosse che suggeriscono la preparazione a qualsiasi possibile aggressione esterna.
Entrambe le potenze stanno adottando un'ampia gamma di misure, in ambiti come commercio, tecnologia, diplomazia, controlli alle esportazioni, postura militare e operazioni informatiche, con l'obiettivo di ostacolare le strategie e gli interessi della controparte. Alcuni obiettivi della Cina risultano incompatibili con gli interessi statunitensi: l'approccio di Pechino alla governance, nella misura in cui tende a proiettarsi sul piano internazionale, potrebbe minacciare i valori fondamentali degli Stati Uniti, sia internamente che all'estero. Di più, la Cina mira a ottenere una posizione dominante nella ricerca e nello sviluppo scientifico e tecnologico, in modi che rischiano di indebolire interi settori industriali statunitensi - come già accaduto con le celle solari o le batterie - e di rendere gli Stati Uniti economicamente e tecnologicamente dipendenti dal loro principale rivale.
Di conseguenza, Washington deve adottare misure per contrastare le ambizioni più pericolose della Cina e tutelare i propri interessi ma, come avvenne durante la Guerra Fredda, deve anche evitare che la rivalità degeneri in livelli estremi e potenzialmente distruttivi di tensione. I rischi di una competizione totalmente destabilizzata rendono la creazione di un equilibrio stabile altrettanto cruciale, per la sicurezza a lungo termine degli Stati Uniti, quanto la capacità di competere efficacemente. Ecco perché l'America di Trump sta studiando da lungo tempo chi e cosa è la Cina.
Stabilizzare questa rivalità rappresenta dunque un obiettivo essenziale, non solo per Stati Uniti e Cina, ma per l'intero sistema internazionale. E "rivalità" è proprio la parola chiave.
Come nel periodo della Guerra Fredda, si è riaperto un dibattito circa la possibilità stessa di stabilizzare un confronto di tale intensità attraverso impegni politici reciproci, norme di comportamento, meccanismi di contenimento della competizione, relazioni consolidate tra alti funzionari e collaborazioni mirate su questioni specifiche. Una sorta di "gioco delle carte", per usare un termine che gli americani amano, un poker fatto di bluff, corteggiamenti, minacce e donazioni generose. Con la Cina, gli USA non possono giocare come con la Russia, perché sono modelli di civiltà molto diversi e, soprattutto, la Cina parte da una posizione di vantaggio economico e militare.
Traiettorie
Alcuni osservatori scettici sottolineano che le rivalità tra grandi potenze seguono quasi inevitabilmente traiettorie di scontro difficili da controllare, specialmente nei periodi di transizione di potere. Altri ritengono che l'attuale regime cinese, come i revisionisti aggressivi del passato, non sia interessato a una coesistenza pacifica. In entrambe le visioni, puntare sull'accomodamento e sulla stabilità rischia di essere interpretato come un segno di debolezza. Gli americani sanno che cercare il dialogo con Pechino anziché contenerla potrebbe creare un ambiente permissivo che alimenterebbe l'avvicinarsi dello scontro. Ma la domanda da porsi è: chi è che vuole lo scontro?
Attualmente, stando alle dichiarazioni ufficiali, l'America di Trump è esplicitamente in rotta di collisione con la Cina. Anzi, citando lo stesso Potus, è in "guerra".
Chiarita questa seconda premessa, possiamo proseguire l'analisi, giacché in molti aspetti questo dibattito ricalca quello che accompagnò la politica di distensione durante la Guerra Fredda. Nel corso del confronto tra Stati Uniti e Unione Sovietica, vari presidenti americani, anche prima della fase simbolica degli anni '70, tentarono di introdurre elementi di prevedibilità e moderazione nella competizione, nel tentativo di ridurre il rischio di guerra, ma anche per altre ragioni: dimostrare responsabilità agli alleati, alleggerire impegni militari e diplomatici, o rispondere a pressioni interne. I critici dell'epoca, e successivamente, giudicarono tali sforzi ingenui e pericolosi, sostenendo che di fronte a un regime ideologicamente ostile e potenzialmente avventurista, l'unica strategia valida fosse quella di intensificare al massimo la pressione geopolitica ed economica.
Se, invece, ci avvaliamo di un diverso presupposto di partenza, possiamo considera come la stabilizzazione di una rivalità, per quanto intensa, non solo sia possibile, ma necessaria per evitare il conflitto. Ed è proprio questo che gli americani hanno intenzione di fare.
Gli analisti del progetto RAND, uno dei più importanti think tank governativi americani, pur consapevoli del comportamento talvolta aggressivo e predatorio della Cina, ritengono indispensabile che gli Stati Uniti resistano alle sue pratiche coercitive e difendano i propri principi fondamentali. Allo stesso tempo, riconoscono che Pechino percepisce l'enfasi americana sulla democrazia come uno strumento di destabilizzazione e considera la presenza statunitense nell'Indo-Pacifico un tentativo di contenimento forzato della propria ascesa. E lo dice la RAND... state pur certi che sulla scrivania dello Studio Ovale arrivato un policy paper da leggere con molta attenzione.
La rivalità non è un semplice malinteso che potrebbe essere risolto con una maggiore comprensione reciproca: alcune ambizioni e modalità operative di Pechino risultano oggettivamente inaccettabili per Washington e per molti altri Paesi. Gli Stati Uniti intendono preservare le norme fondamentali e mantenere il proprio ruolo di bilanciatore di sicurezza nella regione, ruolo che la Cina interpreta come un'ingerenza indebita nei propri legittimi interessi e nella propria posizione nel sistema internazionale.
Non è realistico ipotizzare oggi un'agenda di piena coesistenza o una trasformazione radicale della rivalità in una competizione blanda, come non lo è quella di un'evoluzione in un conflitto convenzionale (ammettendo che sia ancora possibile, oggigiorno, fra due potenze globali geograficamente lontane). Per gli USA è quindi fondamentale individuare tutti i meccanismi di stabilizzazione in ambiti specifici.
Spesso si propone di costruire cooperazione tra Stati Uniti e Cina su questioni globali di interesse comune per attenuare la rivalità, ma tali sforzi risulteranno inefficaci se la relazione complessiva diventa eccessivamente ostile; inoltre, Pechino sembra mostrare scarso interesse per una cooperazione sostanziale in questi campi, perché l'America non si è mai mostrata affidabile e coerente nemmeno nelle questioni umanitarie.
Status quo condiviso
Durante la Guerra Fredda, mentre Washington perseguiva la superiorità sistemica e cercava di scoraggiare varie forme di aggressione, un elemento fondamentale del suo successo risiedette in una lunga serie di negoziati, accordi e compromessi specifici su singoli temi, che contribuirono a definire, seppur in modo provvisorio, alcuni elementi di uno status quo condiviso.
Tentare di costruire uno status quo comune, anche senza una risoluzione complessiva della rivalità, è tuttavia un compito estremamente complesso in qualunque confronto geopolitico di alta intensità.
Elementi di stabilità non eliminano del tutto il rischio di conflitto: basti ricordare che, nonostante i numerosi accordi della Guerra Fredda, nel 1983 il leader sovietico Jurij Andropov era convinto che gli Stati Uniti stessero preparando un attacco nucleare preventivo. I quadri di coesistenza, in genere, si formano nel tempo attraverso una successione di passaggi incrementali, piuttosto che con un singolo atto risolutivo, e necessitano quindi di un periodo prolungato per produrre effetti reali sulla rivalità. Raggiungere una sistemazione veramente condivisa e stabile implica concessioni dolorose da entrambe le parti, spesso in contrasto con principi o concezioni profondamente radicate di politica internazionale e di sicurezza nazionale.
Nell'Asia contemporanea la Cina mantiene una visione piuttosto rigida del proprio ruolo in una struttura di potere regionale di tipo gerarchico, visione che lascia scarso margine a una forma di status quo condiviso secondo la logica americana. Una delle principali evidenze di questa ricerca è che Stati Uniti e Cina concepiscono in modo profondamente diverso cosa significhi "stabilità" nelle principali aree di disputa, e ciò avviene perché sono diversi i presupposti e, molto probabilmente, anche i fini. Se infatti gli USA dichiarano apertamente guerra alla Cina, quale interesse dovrebbe avere il governo di Pechino a "stabilizzare" le relazioni con un nemico dichiarato? Per quale ragione, poi, dovrebbe accettare un modello di stabilità "in stile americano"?
Qui si cela uno dei grossi limiti degli USA. La loro arroganza e la giovane esperienza politica (sono un Paese nato pochi secoli fa, contro una civiltà che conta gli anni in millenni) non gli ha mai permesso di comprendere veramente cosa sia la civiltà cinese.
Gli Stati Uniti aspirano a mantenere sostanzialmente lo stato attuale delle cose: l'assenza di conflitto o coercizione grave intorno a Taiwan, la libertà di più Stati di avanzare le proprie rivendicazioni nel Mar Cinese Meridionale senza dominio cinese, e la continuazione della propria leadership nella scienza e nella tecnologia. E, ovviamente, questo presunto limite stabilito dovrebbe essere rimodellabile ad ogni tentativo di pressione da parte di Washington, esattamente come è avvenuto con la espansione della NATO verso Est in Europa dopo la Guerra Fredda. La Cina, invece, mira a modificare a proprio vantaggio tutti e tre questi ambiti e considera la definizione americana di "status quo stabile" come uno strumento per contenere le proprie ambizioni. Ne deriva che individuare l'equilibrio che eventuali misure di stabilizzazione dovrebbero preservare risulta già di per sé problematico.
A complicare ulteriormente il quadro vi è il fatto che, in ciascuno di questi contesti, gli equilibri di rivalità stabile tra grandi potenze non sono mai frutto di accordi puramente bilaterali: coinvolgono sempre interessi, ambizioni e comportamenti di attori terzi, siano essi oggetto delle mire delle potenze o potenze intermedie con voce attiva negli affari mondiali. Ogni status quo condiviso, dunque, è intrinsecamente multilaterale, il che rende ancora più arduo il compito di definirlo. I maestri del multilateralismo, qui, non sono certo gli USA.
La strategia statunitense attuale sembra riflettere un pessimismo di fondo riguardo alla possibilità di costruire tale quadro. Gran parte della letteratura sulle relazioni tra Stati Uniti e Cina continua a concentrarsi sugli ambiti di competizione, mentre un numero più ristretto di studi ha esplorato il potenziale di cooperazione su singole questioni. In assenza di progressi verso una visione condivisa dello status quo nelle principali aree di contesa, anche le forme di cooperazione limitata restano profondamente vincolate. Ciò che manca, infatti, è una prospettiva di lungo termine sul potenziale di una competizione stabile o di una coesistenza strutturata, una prospettiva che scaturisca da un dialogo autentico tra esperti statunitensi e cinesi, non certo dai proclami da stadio della presidenza americana.
In questa fase, la rivalità sino-americana si trova ancora agli stadi iniziali, paragonabili a quelli delle grandi competizioni storiche, in cui le potenze rivali devono ancora comprendere i limiti delle proprie ambizioni e definire meccanismi di contenimento stabili. Tale immaturità strategica rende il confronto intrinsecamente instabile e incline a escalation. Il secondo orizzonte temporale guarda invece a un futuro di medio periodo, in cui la rivalità avrà raggiunto una maggiore maturità: entrambe le parti avranno probabilmente compreso meglio i vincoli alle proprie ambizioni e, dopo una serie di crisi e confronti, avranno percepito più chiaramente i rischi di una competizione instabile. Questo futuro - distante alcuni anni, forse oltre un decennio - coinciderà con un inevitabile rinnovamento delle leadership su entrambi i fronti, potenzialmente favorevole a un riequilibrio dei rapporti.
Nei tre ambiti principali considerati - Taiwan, il Mar Cinese Meridionale e la competizione tecnologica e scientifica - non si ritiene plausibile, nel contesto attuale, l'attuazione di iniziative radicali in grado di trasformare la realtà strategica. La diplomazia avrà certamente un ruolo, ma non si intravedono "grandi intese" all'orizzonte.
Nonostante gli sforzi protratti nel tempo, le autorità statunitensi hanno ottenuto risultati modesti nel trovare spazi di compromesso o cooperazione. Un ulteriore ostacolo risiede nel deterioramento delle relazioni operative tra i livelli amministrativi e tecnici dei due governi: oggi esistono pochissimi canali di comunicazione affidabili, il che rende estremamente difficile qualunque progresso diplomatico concreto. Ne consegue che il rapporto bilaterale è, in misura crescente, dominato dai contatti diretti tra i due leader, circostanza che può offrire opportunità di svolta se essi sceglieranno di intraprendere azioni coraggiose in nome della stabilizzazione, ma che al tempo stesso limita i margini per un progresso graduale e tecnico.
Se ci sarà o meno una "pace" o si creerà una sorta di "guerra fredda 2.0", ancora non lo sappiamo. Quello che è certo è che gli USA hanno dichiarato guerra alla Cina e adesso pretendono di calmare le acque per evitare il peggio. L'ennesimo bluff al tavolo del poker della casa bianca.